Maschere e mascherine, isole e isolamenti ai tempi del coronavirus. Cronache di uno psicologo veneziano.
Maschere veneziane e mascherine anti coronavirus…
Questo periodo il mio quotidiano, e non solo il mio, è stato cambiato dalla diffusione globale e locale del corona virus e dalla conseguente paura di essere esposto ad esso.
Poco meno di un mese fa decisi a malincuore di annullare la mia partecipazione ad un interessante convegno al quale ero stato invitato, a Seoul in Corea del Sud, per limitare il rischio di contrarre il coronavirus che si stava propagando nella vicina Cina da pochi giorni.
Giusto ieri, a migliaia di kilometri di distanza da queste nazioni dell’estremo oriente, mi sono (ri)trovato costretto a cancellare un piacevole viaggio di lavoro a Bologna dove volevo andare anche con mia moglie e nostro figlio per goderci un breve soggiorno nella bella città emiliana.
Nel momento in cui ho annullato il viaggio a Bologna ascoltando un telegiornale sono venuto a sapere che l’Italia è attualmente la terza nazione al mondo per diffusione del virus (dopo la Cina e la Corea del Sud!) e che per contenere la diffusione del coronavirus la regione dove vivo, il Veneto, ha imposto (per la prima volta nella storia di questo secolare evento) l’annullamento del carnevale di Venezia (città dove vivo e lavoro).
Venezia è una città che storicamente conosce purtroppo molto bene cosa significa avere a che fare con la diffusione di un virus infatti nel 1630 la famosa peste chiamata “morte nera” uccise più un quarto dei cittadini della repubblica Serenissima (vedi il mio articolo www.massimoagnoletti.it/venezia-peste-salute-effetto-placebo/).
Sarà anche per la conoscenza di questi eventi noti a tutti i veneziani che alcuni termini, ormai menzionati ripetutamente da tutti i media durante l’ultimo mese, mi fanno pensare a quanto sia bizzarra e per certi versi interessante la storia.
Sentir parlare di “quarantena” (termine coniato dalla Serenissima per definire l’ “isola”mento, di quaranta giorni presso un’isola fisicamente separata da Venezia per monitorare ed eventualmente contenere gli appestati) e di maschere e “mascherine”, da quelle carnevalesche a quelle caratteristiche veneziane dal becco ricurvo utilizzato dai medici del 1600 per contenere delle erbe aromatiche considerate anti peste a quelle purtroppo molto di moda a causa dell’attuale coronavirus, mi fa riflettere riguardo la realtà di questi giorni che si trova a fronteggiare un evento emergenziale considerato finora dalle ultime due generazioni solo un lontano e sbiadito ricordo storico se non un accattivante trama di un catastrophic movie in stile hollywoodiano.
Venezia comunque, con la sua illustre e lunga storia, ci ricorda che queste emergenze ci sono sempre state e che possono essere superate. Il modo di superarle dipende anche dal nostro impegno, la nostra capacita’ di essere creativamente innovativi nel contrastare il virus.
Alcuni comportamenti emergenziali che si stanno riscontrando in questi giorni in Italia, in particolare nell’area geografica da dove sto scrivendo (uno dei focolai più intensi a livello nazionale si trova a soli pochi kilometri da dove abito), li ho già visti in prima persona per un’altra tipologia di emergenza.
Anni fa quando mi trovavo a lavorare in Florida prima del preannunciato passaggio dell’uragano Katrina vidi con quanta efficienza (ma senza panico!) le persone svuotavano gli scaffali dei supermercati per essere sicuri di fronteggiare eventuali e probabili giorni chiusi in casa senza elettricità ed acqua corrente. In questi giorni vedo un simile comportamento da parte di molti italiani che di fronte al pericolo del coronavirus compiono gli stessi atti stereotipati che normalmente esprimiamo per sentirci un po’ più al sicuro.
La reazione di paura di fronte ad una emergenza annunciata comporta la messa in pratica delle medesime azioni, una delle quali consiste nel “fare scorta” e barricarsi in casa.
Dal punto di vista psicologico è interessante notare alcuni aspetti, che tra l’altro sto vivendo anche direttamente, dell’emergenza indotta dal coronavirus.
Il fastidio e la frustrazione di essere vincolato nella propria libertà personale, di avere la percezione di non poter controllare il rischio in modo efficace ma anzi essere consapevole che molte delle azioni che possiamo mettere in atto avranno un effetto limitato se non replicate anche da molte altre persone a livello locale e globale, sono solo alcuni aspetti che irrompono nella nostra routine quotidiana ricordandoci forse in modo drammatico quanto conti essere uniti e condividere degli obiettivi comuni.
Dico questo perché un’altra cosa psicologicamente significativa durante qualsiasi emergenza è che, per adattarsi al nuovo contesto, vengono modificate drammaticamente e velocemente alcune categorie psicosociali date per scontate prima della percezione del potenziale pericolo.
Ne è un esempio lampante quanto paradigmatico (e per certi versi anche comico) l’ordinanza di divieto di sbarco sull’isola di Ischia per i residenti in Lombardia, in Veneto e per i cittadini cinesi firmata due giorni fa dai sindaci dei sei comuni dell’isola.
L’ordinanza di Ischia (annullata successivamente dal prefetto di Napoli) mi ha fatto sorridere anche perché, per ridere insieme a mia madre, come battuta le ho sempre detto che con il suo cognome (Ceolin) dovevamo per forza essere imparentati con qualche cinese…
In effetti foneticamente, Ceolin, suona proprio come una parola tanto veneta che cinese. 😉
Paradossalmente, in questi attuali contesti delicati, proprio per fronteggiare una situazione emergenziale connotata soprattutto da valenze emotive sostenute dalla paura, occorre cercare di essere ancor più razionali e positivi contrastando attivamente le comunicazioni ed i comportamenti allarmistici per evitare il pericoloso di panico sociale.