I vantaggi dell’essere ottimisti
Il recente movimento della Positive Psychology (Psicologia Positiva) ha tra i suoi temi centrali lo studio scientifico dell’ottimismo come fenomeno caratteristico della nostra specie.
Fino a pochi anni fa, pur essendo un argomento vissuto come importante e fondamentale da parte della gente comune, l’ottimismo non era considerato “degno” di essere oggetto di studio scientifico da parte della stessa Psicologia perché poco oggettivabile e quindi misurabile.
Solo recentemente vari autori hanno contribuito a far si che l’ottimismo fosse riconosciuto quale oggetto di ricerca, il prezioso contributo di due di questi studiosi sarà il tema di questo breve scritto.
Prenderò come riferimento due tra gli autori che considero importanti in questo campo: lo psicologo Martin Seligman fondatore della Psicologia Positiva, promotore del concetto di ottimismo come competenza potenziabile attraverso un adeguato apprendimento e noto stdioso del fenomeno dell’impotenza appresa e la psicologa Tali Sharot ricercatrice e autrice dell’interessante libro “Ottimisti di natura”.
Ritengo che il professor Seligman abbia contribuito fortemente a considerare l’ottimismo un’ attitudine psicologica che può essere coltivata nel tempo e quindi potenzialmente migliorabile attraverso un apprendimento teso ad essere più consapevoli delle strategie cognitive/emotive per affrontare e gestire le avversità. Esperimenti hanno dimostrato quanto introdurre questi apprendimenti abbia non solo migliorato la situazione psicologica di persone che soffrivano di depressione ma anche la loro salute psicofisica e la loro qualità di vita.
La visione di un ottimismo non prefissato da qualche parametro genetico inalterabile ha permesso di considerarlo come qualcosa che si può modificare attraverso delle esperienze, che si può quindi apprendere e che, di conseguenza, sposta all’interno della nostra volontà (e quindi responsabilità) la possibilità di coltivarlo o meno.
Culturalmente considero questo concetto molto importante perché va nella direzione opposta a stereotipi del tipo “quella persona è sempre stata così (e quindi sarà sempre così…)” in riferimento al loro ottimismo/pessimismo. Ho l’impressione che questi stereotipi siano stati molto dannosi soprattutto nel settore pedagogico ed educativo in genere.
L’ottimista, di fronte alle avversità che la vita gli presenta, riesce a “guardare avanti” e gode di uno stato di salute migliore rispetto la media e questo perché ha un’autostima fondata sul convincimento che può esercitare un controllo significativo e determinante degli eventi che fanno parte della sua vita. Nel convincimento di essere determinante nella capacità di gestire la propria vita, l’ottimista mobilita maggiore impegno e si attribuisce maggior merito nei successi registrati oltre a percepire un maggiore “spazio di manovra” nelle situazioni problematiche che incontra (in altri termini ha maggior fiducia in se stesso).
La psicologa Tali Sharot ricercatrice presso la UCL (University College of London) ritengo sia molto interessante per la definizione molto chiara del concetto di ottimismo come inclinazione (condivisa almeno dall’80% della popolazione) che permette di avere una visione selettiva delle informazioni a tutto vantaggio del nostro benessere. In altri termini la Sharot dimostra che inconsapevolmente abbiamo la tendenza a sottovalutare la probabilità di fare esperienze negative sopravvalutando invece quelle positive; non siamo realisti quando siamo obbligati a pensare quante probabilità abbiamo di ammalarci di cancro per esempio (in questo caso sottostimiamo l’evento) ma non siamo realisti nemmeno quando dobbiamo considerare il nostro futuro in termini di longevità (sovrastimandolo).
La ricercatrice parla di una sorta di “illusione” psicologica adattiva sia nel senso che se fossimo più realisti che ottimisti in generale tenderemmo maggiormente alla depressione più che ad uno stato di benessere che ci permette di avere fiducia del futuro, sia nel senso che come un illusione ottica anche se siamo consapevoli del suo meccanismo non per questo l’illusione finisce di agire come prima. In questo senso la Sharot intravede un significato adattivo biologico molto forte nell’essere ottimisti.
L’ottimismo è la nostra inclinazione naturale a vedere le cose in un modo più adattivo perché “illudendoci” di avere un futuro più brillante siamo meno propensi all’ansia e allo stress.
A mio parere questa illusione ci permette un effetto placebo autoindotto con il quale coltiviamo il nostro senso di efficacia e di controllo nei confronti degli eventi della vita, ecco perché l’ottimismo porta al successo nel mondo accademico, nello sport e in politica anche se il suo beneficio più sorprendente e diretto è quello relativo la salute.
La ricercatrice israeliana ha anche identificato attraverso la risonanza magnetica funzionale un’area corticale chiamata “circonvoluzione frontale” particolarmente coinvolta quando una persona esprime ottimismo.
In sintesi il messaggio di Seligman e della Sharot mi sembra essere questo: abbiamo un inclinazione mentale che chiamiamo ottimismo che ci permette di affrontare con maggiore efficacia le difficoltà e le sfide che la vita ci presenta, questa inclinazione può essere potenziata per migliorare la nostra qualità di vita perché ci consente di essere maggiormente consapevoli delle nostre capacità nel gestire al meglio le nostre stesse vite.
BIBLIOGRAFIA:
Imparare l’ottimismo. Come cambiare la vita cambiando il pensiero
Ottimisti di natura. Perché vediamo il bicchiere mezzo pieno