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L’EPIGENETICA RIDEFINISCE IL CONCETTO DI SELF DELLE SCIENZE BIOMEDICHE E PSICOLOGICHE

Il moderno paradigma dell’epigenetica offre un concetto del rapporto Self-Ambiente profondamente diverso rispetto quello precedente focalizzato sul contenuto del DNA. Questa differenza rappresenta un cambiamento sostanziale che ha molteplici implicazioni sia nelle scienze biomediche che psicologiche.

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Il paradigma dell’epigenetica è un concetto che ha rivoluzionato il cosiddetto “dogma centrale” della biologia molecolare adottato dalla maggioranza degli accademici e operatori del settore biomedico e psicologico da più di cinquanta anni.

La versione recente paradigma epigenetico ha dimostrato che l’informazione biologica non va in via esclusiva, e quindi unidirezionale, dal genotipo (rappresentato dal DNA) al fenotipo (rappresentato dagli aminoacidi, i “mattoncini” fondamentali del nostro organismo) ma include anche la direzione opposta attraverso l’azione di vari meccanismi che selezionano attivamente quali porzioni di DNA “esprimere” in molecole fisicamente e chimicamente attive che costituiscono il nostro organismo e quali invece “silenziare” rendendo virtualmente assenti altre porzioni che quindi non vengono codificate e tradotte e quindi non assumono una funzione, un impatto sul mondo chimico/fisico e quindi non hanno significato dal punto di vista della fitness dell’organismo.

Il termine epigenetica è stato utilizzato (ri)prendendolo dal grande embriologo inglese Conrad Waddington che coniò questa parola per riferirsi alle varie differenti traiettorie fenotipiche che possono derivare dal medesimo genotipo.

Contrariamente, il dogma centrale della biologia molecolare implicava che tutte le informazioni necessarie per costituire un organismo fossero contenute nel DNA nel senso che gli aspetti “esterni” rispetto il self rappresentato dalla sequenza di basi del cromosoma (“ambientali” quindi rispetto il DNA stesso) agissero su di esso solo indirettamente attraverso la selezione naturale dell’organismo nella sua globalità ma non in modalità attive e dirette che manipolassero selettivamente il “cosa”, il “quanto” ed il “quando” esprimere del codice genetico.

Naturalmente per molti decenni in cui il mainstream era costituito dal dogma centrale della biologia (e anche precedentemente la scoperta del DNA) molti studiosi non furono d’accordo con la visione di un DNA “impermeabile” alle informazioni biologiche provenienti dall’ambiente non genetico (si veda ad esempio tutto il campo dell’embriologia) ma furono marginalizzati dal punto di vista accademico proprio perché quanto i fenomeni che studiavano nello specifico, si pensi per esempio al processo di differenziazione cellulare (che attribuisce l’identità ad un neurone e lo contraddistingue da una cellula che invece diventa muscolare), mal si adattavano al concetto di flusso informazionale monodirezionale dal DNA al mondo organico delle proteine.

Sposando una prospettiva evoluzionistica focalizzata quasi esclusivamente sulla selezione naturale, la visione centrata sulla priorità dei geni ebbe un grande successo accademico, clinico e mediatico che è stato sostenuto anche dal modello biomedico tradizionale (dualistico e meccanicistico) dando vita a versioni biologiche e psicologiche della persona umana che rispecchiavano queste radici epistemologiche che prevedono la suddivisione tra un Self (sostanziato dal DNA) ed un Non-Self (ambiente) rappresentato da tutto ciò che non è informazione genetica.

Nella pratica clinica e di ricerca di diversi professionisti quali medici, psicologi, biologi ed altre figure, è sempre stato evidente che l’organismo doveva essere trattato anche quale entità almeno in parte autonoma rispetto la sua memoria genetica ma questa evidenza comunque veniva considerata quasi come un diffuso ma non riconosciuto nonsense se contestualizzato nel paradigma condiviso dalla comunità accademica e clinica in quel momento storico.

La celebre metafora del DNA come software di un computer che dirige la costruzione di un hardware rappresentato dalle molecole attive nel mondo fisico-chimico organico od il famoso concetto del “gene-egoista” del noto biologo evoluzionista Richard Dawkins dove l’informazione genetica aveva come unico scopo quello di massimizzare la replicazione di se  stessa attraverso l’azione passiva e secondaria di un fenotipo rappresentato dall’organismo stesso, hanno cercato di rendere concreto il paradigma della biologia molecolare dove il DNA assume il ruolo di unico attore protagonista della scena biologica.

Le conseguenze dell’accettazione di questo paradigma sono state molteplici ma, per gli scopi di questo scritto, ci limiteremo a ricordarne solo alcune di esse tra le quali la marginalizzazione del reale ruolo della psicologia nel panorama delle scienze dedicate alla salute, un fatalismo particolarmente pericoloso indotto e assecondato dai cittadini educati da questo concetto largamente condiviso socialmente (perché diffuso anche in ambiti scolastici/accademici) e l’inutile dispendio di tempo, energie e risorse anche economiche investite nel tentativo di identificare all’interno della sequenza del DNA problematiche che sono frutto invece di una massiccia interazione extra genetica.  

Le più recenti acquisizioni scientifiche hanno invece reso evidente il graduale collasso del paradigma focalizzato sui geni sia perché l’intera scansione del DNA ha dimostrato indirettamente l’impossibilità di spiegare tutti i fenomeni attraverso la codifica dei geni, sia perché dal punto di vista matematico il genotipo non ha la possibilità descrivere la complessità del fenotipo (Barbieri, 2003), sia perché sempre più studi rendono chiara la stretta interazione bidirezionale tra il DNA e l’informazione extragenetica come palesato da tutto l’ambito che ha come oggetto di ricerca i telomeri (Blackburn 1991; Blackburn 2010; Agnoletti, 2018a; Agnoletti, 2018b) oltre allo studio sia umano che comparato animale sui gemelli omozigoti (Van Baak, Coarfa, Dugué, et al. 2018).

Considerando che per sistema teleologico qui intendiamo un sistema d’informazioni che si modificano nel tempo seguendo le regolarità caratteristiche dei sistemi evolutivi (Miller, 1970; Monod, 1970; Morin, 1985; Prigogine, 1976) capaci di aumentare la complessità evolvendo nel tempo (Barbieri, 2003; Miller, 1970; Monod 1970; Morin, 1985; Prigogine, 1976), con l’introduzione del paradigma epigenetico si passa da una visione dell’organismo (specie umana inclusa naturalmente) contraddistinta da un Self genetico e un non Self che in maniera deterministica e lineare persegue lo scopo, la teleonomia, diretta ed imposta dal DNA, ad una visione più complessa ed articolata dove i confini tra ciò che è Self e ciò che non lo è, è meno semplice da definire perché include una continua comunicazione tra flussi informazionali che si influenzano reciprocamente e che prevedono l’interazione tra il DNA e tutto ciò che è esterno a questa memoria genetica (il genotipo).

Se infatti, nel paradigma passato, il Self era identificato dal DNA ed il non Self corrispondeva a tutto ciò che non si trovava nel contenuto informativo dei geni, adesso con l’epigenetica, il Self non ha più una sua collocazione spaziale così ben definita e discriminabile.

La teleonomia dell’organismo non è più quindi riconducibile esclusivamente al DNA ma ad un dialogo in cui la mente, e quindi le scienze psicologiche, (ri)acquisiscono un valore ed un ruolo assolutamente più importante rispetto al recente passato, perlomeno da coprotagoniste insieme agli altri attori biologici che costituiscono la nostra globalità.

La vecchia metafora/analogia dell’organismo come computer dove il software è rappresentato dall’informazione genetica non ha più senso nel momento in cui l’hardware, e quindi i fattori ambientali, possono influenzare la memoria software scegliendo e determinando che programma eseguire e quale programma invece non esprimere.

In questa nuova visione più complessa della biologia, le implicazioni di cosa si intende per fitness dell’organismo (e quindi le derivanti dinamiche biologico evoluzionistiche) è un qualcosa di più articolato da stabilire perché impone di considerare più teleonomie che si integrano all’interno e all’esterno dell’organismo stesso e che definiscono il concetto di identità e di unità biologica (Agnoletti, 2019a).

Per citare un caso eclatante di questa integrazione ricordiamo che la recente scienza dei telomeri ci dimostra non solo che esiste un processo bottom-up rappresentato da una stratificazione di memorie organiche che dal codice genetico arrivano ai codici mentali ma anche che esiste l’interazione opposta top-down attraverso la quale gli aspetti psicologici, sociali, culturali e di altra natura (motoria, nutrizionale, ecologica, etc.) vengono tradotti in variazioni epigenetiche seguendo un effetto “imbuto” o “collo di bottiglia” (Agnoletti, 2019a; Agnoletti, 2019b) nello spazio memoria genetico che possediamo.

In questo senso il modello bio-psico-culturale inizialmente teorizzato da Engel ha senza dubbio più possibilità esplicative rispetto il modello medico meccanicistico tradizionale (Agnoletti, 2004; Agnoletti, 2019b) perché riesce a dare spazio e dignità epistemologica a comportamenti caratterizzati da teleonomie discordanti all’interno dello stesso organismo (si veda a riguardo alcune tipologie di suicidi o la dinamica dell’effetto placebo-nocebo).

Nel più recente ed aggiornato concetto epigenetico, l’organismo è un’unità integrata di una pluralità agenti teleonomici che talvolta esprimono finalità contrastanti realizzando comportamenti apparentemente paradossali se visti con l’ottica tradizionale (cosa spinge per esempio un pompiere, un poliziotto o un agente infiltrato a rischiare ripetutamente la propria vita? Cosa spinge un prete o una suora a praticare il celibato? etc.).

All’interno di questa moderna visione biologica si può dire che ciò che rappresenta il Self per uno di questi attori teleonomici può rappresentare un Non Self per un altro ma senza dubbio il ruolo della mente quale agente in grado di influenzare e coordinare tutti gli altri agenti acquista un valore particolarmente importante per la sua peculiare capacità di essere fortemente dipendente dalle esperienze acquisite e i processi intenzionali e dal poter incidere in maniera diffusa ed in un arco temporale incomparabilmente più breve e massiccio rispetto tutte le altre dinamiche fisiche-chimiche conosciute (motorie, nutrizionali, di esposizione a sostanze, etc.).

Se consideriamo come agente teleonomico la cellula, ad esempio, il suo Self è definito dalla complessa struttura mentre il suo ambiente, il suo Non–Self, corrisponde a ciò che avviene al di fuori dei confini della sua membrana.

Nel caso invece del sistema immunitario il concetto di Self non ha una sua collocazione univoca spazialmente definita come nella cellula ma è diffuso e sostanziato informazionalmente in tutte le cellule che condividono le stesse memorie immunologiche e che distinguono in cellule riconosciute come funzionali e vantaggiose per l’organismo e cellule pericolose che quindi vanno aggredite e distrutte. 

All’interno della teleonomia psicologica, ad essere centrale per il nostro Self è la nostra mente (si veda in proposito Massimini, Inghilleri, & Delle Fave, 1996) che possiede però la capacità unica di comunicare, interagire e selezionare tutte le varie memorie che la costituiscono (memoria genetica, le varie memorie epigenetiche incluse quelle psicologiche, memorie culturali depositate in artefatti extra-organici come i libri, etc.) con la capacità esclusiva di modificare epigeneticamente anche attraverso l’intenzionalità e la consapevolezza la definizione del proprio Self (e quindi del proprio non Self).

Esempi estremi di quest’ultimo concetto sono il fatto che ci sentiamo comunque noi stessi anche in seguito alla perdita di alcune delle memorie organiche del nostro corpo (si pensi all’amputazione di un arto) mentre possiamo avere la percezione di un’identità alterata per un disturbo psicologico come la schizofrenia che intacca il Self delle nostre memorie mentali o possiamo sacrificare la nostra vita per preservare un artefatto o per un valore simbolico considerato soggettivamente come particolarmente significativo (si pensi ad esempio alle guerre religiose).   

L’epigenetica ci dimostra che la quantità e la qualità delle esperienze che scegliamo di fare e quindi gli stati mentali che viviamo durante queste esperienze influenzano sempre il livello più intimo del nostro organismo biologico, quello genetico modificandone l’espressione e quindi anche la longevità.

Oltre ad una “memoria psicologica” e la “memoria genetica” dovremmo quindi ormai considerare anche il concetto di “memoria epigenetica” per comprendere al meglio la fenomenologia ed il comportamento umano evitando così lo sterile riduzionismo Natura vs Ambiente che ha connotato tutte le scienze biologiche e psicologiche per oltre un secolo.

Tra i settori che stanno emergendo da questo recente approccio della biologia c’è per esempio la nutrigenomica e la psicologia epigenetica (Agnoletti, 2018c).

Si può quindi affermare che la specie umana sia la specie animale dove la componente epigenetica è la più complessa (perché include tra l’altro anche memorie extrasomatiche simboliche) e nella quale l’atto mentale consapevole ed intenzionale può promuovere il cambiamento sulle varie memorie (genetiche, epigenetiche, psicologiche, culturali…) che compongono sia l’organismo che l’ambiente nel quale interagisce.

L’epigenetica dunque riporta ad un ruolo centrale ed imprescindibile le scienze psicologiche che per troppi decenni erano state estromesse all’interno delle discipline dedicate alla salute psicofisica delle persone.

BIBLIOGRAFIA

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Massimini, F., Inghilleri, P., & Delle Fave, A. (1996). La selezione psicologica umana. Teoria e metodo d’analisi. Milano: Cooperativa Libraria IULM.

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Van Baak, T.E., Coarfa, C., Dugué, P. et al. (2018). Epigenetic supersimilarity of monozygotic twin pairs. Genome Biol 19, 2.doi:10.1186/s13059-017-1374-0

 FONTE: Agnoletti, M. (2020). L’epigenetica ridefinisce il concetto di Self nelle scienze biomediche e psicologiche. Medicalive Magazine, 1, 35-40.

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