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L’esperimento di Milgram e l’Olocausto

L’Esperimento di Milgram e L’Olocausto

Alla fine della Seconda Guerra mondiale, la necessità di trovare giustizia rispetto i crimini infami realizzati dai nazisti (vedi il famoso processo ad Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei) portò a considerare le radici e le dinamiche di un fenomeno sociale crudele quanto condiviso da milioni di tedeschi con il supporto di tanti italiani.

Dall’ascesa, e per opera, dei nazisti in Germania vi furono oltre 5 milioni di morti. L’Olocausto (letteralmente “bruciato interamente”) rappresenta l’estrema e forse più drammatica applicazione di un progetto portato avanti non solo dagli apici di un’autorità spietata e assolutamente determinata a realizzare i suoi aberranti intenti ma anche da una maggioranza di tedeschi che sostenevano questi ideali contribuendo attivamente ad applicarli.

Come poteva essere spiegato il contributo attivo di milioni di persone “normali” nell’eseguire e sostenere tali crimini? Logicamente non potevano essere considerati dei “pazzi” nel senso generico e negativo del termine.

Era evidente che milioni di persone non potevano essere contemporaneamente  portatrici di una patologia dove l’infliggere sofferenza ad altre persone era una delle componenti principali. Era altrettanto chiaro che non si trattava di un contesto dove diffusamente vi era sempre presente la minaccia di una dura punizione (quindi l’obbligo o l’imposizione) verso coloro che si rifiutavano di eseguire crudeltà nei confronti di gruppi sociali diversi dal proprio (ebrei, rom, sinti, jenisch, omosessuali, oppositori politici, ecc.).

Lo stesso Eichmann si difese dalle accuse definendosi “un grigio burocrate che eseguiva solamente gli ordini dei gerarchi importanti” ma era per tutti evidente che il suo comportamento aveva radici più complesse condivise e complicate da capire.

La storia imponeva una domanda importante quanto attuale: cosa aveva spinto milioni di tedeschi a comportanrsi così? Non si trattava di un contesto patologico ne di un modo di evitare di essere brutalmente puniti o uccisi, cos’era dunque?

Sebbene non “malate” ne “obbligate” questi milioni di persone “normali” come potevano essere considerate e giudicate? Qual’ era stata la loro responsabilità (sia etica che giuridica) all’interno dell’Olocausto? C’era qualcosa che si poteva “imparare” da questa inquietante “lezione” della Storia per scongiurarne una sua futura replica?

Anche il mondo della ricerca scientifica cercò di rispondere a queste domande e subito dopo il processo per crimini di guerra contro Adolf Eichmann il giovane psicologo sociale Stanley Milgram, presso la Yale University, si impegnò ad investigare un’ipotesi sulle dinamiche coinvolte. Si chiese: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”.

I risultati dell’esperimento di Milgram, oltre a stupire lui stesso e la sua equipe, sconvolsero ed illuminarono il mondo della psicologia sociale (oltre che tutti coloro che sono interessati alla psicologia) per le importanti implicazioni pratiche e per l’importante contributo nel capire la natura umana.

L’esperimento di Milgram richiede la presenza di tre ruoli: uno psicologo o un medico o uno scienziato (che rappresentano l’autorità), un volontario (colui che esegue gli ordini richiesti dall’autorità) e un attore che impersona un finto volontario (colui che subisce in modo simulato le conseguenze del comportamento del “vero” volontario).

Al “vero” volontario viene chiesto di punire con una scarica elettrica (di intensità crescente al crescere degli errori rilevati) ogni sbaglio effettuato dal “finto” volontario durante un banale compito di memoria. Ad ogni parola sbagliata, o non ricordata, al “finto” volontario veniva quindi somministrata (dal “vero” volontario) una “falsa” scarica elettrica. Naturalmente il “vero” volontario non era consapevole che si trattava di una farsa ed era anzi ben convinto e consapevole che le scariche elettriche applicate andavano crescendo da un’intensità quasi impercettibile ad una descritta dal macchinario dove veniva effettuata l’effettuazione della scarica come pericolosa mortalmente.

Al di là dei dettagli, tutt’altro che poco interessanti e secondari, e dei risvolti tecnici dell’esperimento di Milgram (si pensi alle numerose “varianti” dell’esperimento stesso ed alle implicazioni anche etiche nello svolgere questo tipo di esperimenti) la cosa importante che mi preme qui evidenziare è che malgrado la percezione che normalmente abbiamo sulla nostra capacità di “resistere” ad una autorità sia notevolmente alta (“non farei mai una cosa simile!”) i risultati dell’esperimento dimostrano che la percentuale di soggetti che somministrano punizioni da 450 volt (quindi potenzialmente mortali) supera il 60%.

E’ fondamentale capire che le persone che eseguivano ciò che veniva richiesto dall’autorità (somministrare scariche elettriche crescenti ad ogni errore rilevato) non venivano minacciati dall’autorità stessa se interrompevano l’esperimento (per protocollo, in seguito ad una eventuale esitazione nel procedere con le scariche elettriche, l’autorità doveva semplicemente dire in maniera emotivamente neutra “la prego, proceda nell’esperimento come precedentemente concordato”) ma vivevano un forte stress derivante dall’applicare un dolore al “falso” volontario sconosciuto che in maniera simulata manifestava le conseguenze del ricevere le scosse elettriche (fino a far finta di svenire dal dolore…).

Come dire: i volontari che sottostavano alle regole dell’autorità soffrivano psicologicamente il dover calpestare i propri principi etici ma eseguivano ugualmente il volere definita dall’autorità stessa.

Milgram nel suo libro Obbedienza all’Autorità scrive: “senza provare per parte loro alcuna particolare ostilità, possono diventare agenti in un terribile processo di distruzione. Inoltre, anche quando gli effetti distruttivi del loro lavoro diventano palesi, e viene loro chiesto di compiere azioni incompatibili con le basi fondanti della moralità, relativamente poche persone hanno le risorse necessarie per resistere all’autorità.”.

In sintesi per “imparare” dalla Storia e non ripetere certi drammatici errori occorre sia uno sforzo scientifico che politico e culturale. Da un lato è necessario comprendere profondamente le dinamiche psicosociali implicate nei fenomeni legati all’autorità ed al conformismo, dall’altro è altrettanto fondamentale comunicare in modo efficace alle attuali e future generazioni (magari dalle scuole elementari) questi elementi imprescindibili della nostra vita sociale.

Il giorno della memoria è strategico per stimolare continuamente, soprattutto a livello culturale e politico, l’importanza di queste conoscenze storiche e scientifiche al fine di scongiurare il ricrearsi di fenomeni orrendi quanto vergognosi ed umani (nel senso di prodotti dalla specie umana) come l’Olocausto.

Primo Levi disse: “Io credo che l’Uomo sia biologicamente costruito per non stare inerte sia mentalmente che fisicamente”.

Quest’ “inerzia” descritta da Levi sono convinto sia riferita all’indifferenza intesa come incapacità di opporsi ad un’autorità che si manifesta in modo diverso rispetto la propria etica.

Abbiamo molte conoscenze scientiche che ci illuminano riguardo il come migliorare e potenziare questa dinamica umana al fine di evitare molti danni personali e sociali quindi è nostra responsabilità educativa e politica implementare tali conoscenze.

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